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Sport | 20 aprile 2025, 09:10

La "nuova" vita del Betti: «Questo calcio non mi appartiene. Il Varese ha fatto innamorare quando era fatto da minatori... appena ha messo fuori la testa, si è perso»

L'allenatore della salvezza più straordinaria lavora al "Beccaria" e allena il Luino, appena salvato, per mantenere fede a una promessa: «Sono molte di più le partite che ho perso, ma quelle che ho vinto mi hanno dato grande soddisfazione. Simone Inzaghi uomo vero. La persona più bella mai conosciuta? Spartaco Landini. Per lui il calcio era un fine, non un mezzo. La forza del nostro Varese era lo spirito della provincia: non c’erano una squadra, una tifoseria, una dirigenza. C’era una cosa sola. I varesini si disamorano perché appena costruisci qualcosa di "tuo", te lo portano via sotto il naso»

La "nuova" vita del Betti: «Questo calcio non mi appartiene. Il Varese ha fatto innamorare quando era fatto da minatori... appena ha messo fuori la testa, si è perso»

Seduti al Caffè Beccaria, guardandosi negli occhi e chiacchierando di lavoro, vita e calcio (lo sport, quando sei di fronte a certe persone, è ancora lo specchio di una vita senza scorciatoie, fatta di "no" e di qualche sconfitta che fanno brillare ancora di più le vittorie): Stefano Bettinelli non è cambiato o, se lo è, non ha perduto la sua capacità unica di arricchire chi lo ascolta.  Dal suo lavoro al Centro Beccaria, dove continua a essere in contatto con gli altri e a imparare qualcosa anche dalla sofferenza, a quel mondo del calcio che oggi si chiama Luino, una promessa e una scommessa approdata alla salvezza appena conquistata in Promozione,  ma anche Inter, Simone Inzaghi (mosca bianca e «uomo vero»), Varese dove tutto iniziò e dove tutto, almeno nelle emozioni e nei ricordi, non solo quelli della salvezza più incredibile della storia biancorossa, torna («Quando abbiamo messo la testa fuori dalla miniera, non siamo più stati più. La nostra forza era lo spirito della provincia. Non c’erano una squadra, una tifoseria, una dirigenza: c’era una cosa sola»). E poi ecco le persone, sempre al centro della sua vita, come la voglia di rapportarsi ai giovani e ai calciatori senza seguire l'onda («I filmati degli avversari? Mai fatti vedere nemmeno prima della sfida salvezza con il Novara. Conta quello che sei e come migliorarti, non chi sono gli altri»). Le persone come Giorgio Morini, Gedeone Carmignani e l'indimenticabile Spartaco Landini che, pur conosciuto in biancorosso nel suo ultimo battito d'ali, ha lasciato un'impronta indelebile: «È la persona più bella che abbia mai conosciuto. Si è speso per me». Bella come il Betti.

Stefano Bettinelli, come va? 
Benissimo, sono contento del lavoro che faccio: mi gratifica molto. Ci sono fasi nella vita di un uomo... io sono in questa e ci sto dentro a pennello. 

Che fase è? 
Quella della serenità: sono arrivato a un’età in cui posso fare ciò che mi piace senza guardarmi in giro o indietro. Ciò che conta è il presente, e il futuro lo vivrò quando arriverà. Tutto lo stress che mi si era riversato addosso con lo sport l’ho accantonato: è stata un’esperienza fantastica, forse la più bella della mia vita, ma anche la più difficile da gestire per come sono fatto io. 

Dove lavora oggi Bettinelli?
Al Centro Polispecialistico Beccaria da più di un anno. Mi hanno accolto a braccia aperte e spero di ripagarli con la mia serietà. Il rapporto con gli altri è bellissimo, più che un posto di lavoro è una grande famiglia: ci si confronta, ognuno viene ascoltato. È il luogo ideale per poter lavorare. Io, come in tutte le situazioni della vita, sto “prendendo”, perché sono curioso, mi piace imparare, ma spero anche di dare. È un lavoro in cui arrivo a percepire l’esistenza di situazioni problematiche e devo dire che questo mi fa pensare molto a come potrà essere la mia vecchiaia.

Riconoscono l'allenatore della salvezza più incredibile del Varese? 
Non passa giorno in cui non ci sia qualcuno che mi riconosca o mi guardi in modo particolare chiedendosi se sono effettivamente “quel Bettinelli”. Io dico sempre “sì sono io”. Mi piace fermarmi a parlare con chiunque e mi fa piacere che la gente si ricordi di me, così come mi piace molto quando usano la frase “quando c’era lei…”. Mi dà un senso di positività che mi gratifica.

Se dico la parola calcio? 
Apri un mondo: il presente dice Luino, ma anche Inter e, sempre, Varese. Inter perché sono un grande tifoso, lo sanno tutti, amico di Simone (Inzaghi) e perché la prima volta che sono entrato a San Siro, nel 1973, ha coinciso con la decisione di voler diventare un calciatore. Era il 1973, avevo undici anni, c’era Milan-Atalanta 9-3, ma già sapevo che sarei stato “dell’altra sponda” visto che mio papà mi ha trasmesso la passione per l’Inter. Poi dico Varese, perché è stata tutta la mia vita: mi ha fatto crescere come giocatore e come uomo, con il percorso dagli allievi alla prima squadra, cioè il mitico Varese di Fascetti, poi nei 13 anni passati lì da allenatore. 

Simone Inzaghi è...? 
Un uomo vero. L’ho conosciuto a Coverciano, ci siamo frequentati per un anno durante il corso e ho apprezzato in lui un’umanità che non ho trovato in tutti in quel posto. Ne è nata una bella amicizia che rimane forte anche se ci vediamo raramente.

Altri uomini veri? 
La persona più bella che abbia mai conosciuto nel calcio è Spartaco Landini. Con lui ho recuperato tutti i sentimenti veri di quello che è un calcio puro, un calcio di altri tempi, fine e non mezzo, amore per la maglia. Poi Gedeone Carmignani, il primo uomo di calcio che ha creduto in me e mi ha dato la possibilità di arrivare in prima squadra e di poter camminare con le mie gambe. Non tutti lo fanno: tanti ti usano, lui non l’ha fatto. Loro due sono quelli che ricordo con più piacere. Oltre a Giorgio Morini.

Perché Morini?
Mi ha aiutato ad andare a Varese e mi ha fatto avere il colloquio prima con Giorgio Scapini e poi con Sean Sogliano, e poi perché è stato il mio vate. Gli chiesi, da inesperto, come mi sarei dovuto comportare in caso di forzature da parte di qualcuno, magari per far giocare un giocatore piuttosto che un altro, e lui mi rispose: "Nel calcio devi morire, come ogni allenatore. Decidi tu se vuoi farti uccidere o se ti vuoi suicidare. Se vuoi farti uccidere lavora con le idee degli altri, se ti vuoi suicidare fallo con le tue". Io ho scelto di suicidarmi. E anche per questo non ho più allenato: ho avuto la possibilità di andare a Livorno e a Padova sponsorizzato da Spartaco Landini. Poi lui non è stato bene e le situazioni non si sono concretizzate. Ma Spartaco è stato l’unico a essersi esposto per me.

Noi ricordiamo l’urlo “Betti Betti” dei tifosi del Varese. E lei?
Era l’urlo di gente che ti voleva bene. Ho sempre avuto un ottimo rapporto sia con la curva che con il pubblico dei distinti. Per me erano tifosi del Varese, non c’era alcuna distinzione fra loro. Io mi sentivo il Varese e mi sentivo la gente del Varese, perché anch’io sono stato nei distinti e in curva, e ho sempre avuto questa maglia appiccicata sulla pelle: penso di averlo trasmesso e che sia stato questo a restituirmi qualcosa. Per il Varese ho più pianto che riso, molto di più, sia di gioia che di dispiacere, e questo è sempre emerso. Nell’ultimo anno, quando eravamo già falliti, non prendevamo soldi, i giocatori venivano nello spogliatoio e mi dicevano: “Mister, noi giochiamo solo per lei”. E questa è la cosa più bella che mi sia capitata, anche se rispondevo che dovevano giocare per loro stessi, perché era il loro lavoro e, anche se dall’altra parte c'era chi non rispettava i patti, esisteva qualcosa che contava ancora di più e avrebbe permesso di raccogliere in futuro: la dignità, il modo di essere e di comportarsi da professionisti seri.

Le piace il mondo del calcio? 
No, non mi è mai piaciuto. Mi piace il calcio, non il suo mondo. Per molti il calcio è solo il modo di sbarcare il lunario, ma non lo amano. Questo non mi piace. Tanta gente vive intorno al calcio senza averne le competenze. Mi è sempre piaciuto fare calcio più che vederlo. Al massimo lo ascolto alla radio, come faccio con l'Inter. Poi se mi invitano a qualche partita perché hanno piacere di stare con me, io ci sono: non importa la categoria, basta che sia calcio genuino.

Allena il Luino, che ha appena raggiunto la salvezza in Promozione: perché questa scelta?
È figlia di una promessa e di una scommessa. Erano due anni che non allenavo più e non avevo voglia di ricominciare. Perché ho sofferto veramente tanto per il calcio e ci ho lasciato anche un po’ di salute. In più ho sempre fatto calcio in “casa”: non potevo andare al supermercato, o al cinema, che trovavo qualcuno che mi diceva qualcosa… È stato molto complicato per me, perché mi sono sempre caricato sulle spalle tutte le responsabilità, anche quelle non mie, come andare a parlare con la curva o andare a muso duro davanti al presidente perché non pagava i giocatori. Quindi Luino è stata una promessa fatta a due amici, Fabio e Lodovico, che mi hanno chiesto se potevo dare una mano al progetto, e la scommessa è stata con me stesso, perché volevo capire se fossi all’altezza del compito. Non c’entra nulla aver allenato in serie B: ogni annata è diversa, ogni categoria è diversa, quello che sai non è mai abbastanza e c’è sempre da imparare. La promessa l’ho mantenuta, la scommessa di mantenere la categora è stata vinta. Ai miei ragazzi ho detto la famosa frase “chi non dà tutto non dà niente”, che si può trasformare in questo caso in "chi non vince tutto, non vince niente": siamo riusciti a salvarci e quindi abbiamo dato tutto e vinto tutto.

A casa Bettinelli come si sta durante questa "nuova" vita?
Mia moglie Donatella è molto contenta del lavoro che ho trovato perché mi ha dato serenità. Del fatto che abbia ricominciato a fare l’allenatore, invece, non è molto contenta, perché io non sopporto perdere e sono quasi sempre incazzato quando arrivo a casa. Ormai però ci ha fatto il callo. Io sono uno che non festeggia mai: quando vinco sono “normale”, quando perdo sono arrabbiato. Per me la famiglia è la base di tutto, comunque. Mio figlio Alessandro ha 35 anni e ha giocato a calcio, però al contrario di tutti quei genitori che vedono nel loro figlio Maradona, io a una certa età gli ho fatto capire, anzi gliel’ho detto in faccia, che con il calcio non avrebbe mai mangiato. Lui, che è un ragazzo intelligente e che adoro, ha studiato, si è trovato un bel lavoro ed è un uomo realizzato.

Come vede Varese in generale, partendo dal calcio? 
La vicinanza con Milano ha fatto sì che molti varesini siano più concentrati fuori dalla città che su di essa. Inter, Milan e Juve hanno portato via molto dell’entusiasmo che si sarebbe potuto creare in città con il Varese o con il basket. Un po’ di disinnamoramento dei varesini è dovuto a questo e un po’ al fatto che non si riesce mai a costruire qualcosa di autoctono che coinvolga la gente, che la trascini a innamorarsi di certe situazioni, perché appena costruisci qualcosa te lo portano via sotto il naso. L’ultimo che ha provato a costruire qualcosa è stato Ricky Sogliano con Sean, ma sappiamo come è andata: è naufragato anche questo discorso. Negli anni della B, sia con Sannino che con Maran, si era innescato un grande entusiasmo nelle persone perché non si era preteso amore a prescindere. La gente si era innamorata o era stata fatta innamorare grazie a qualcosa di unico. È sbagliato dire “siccome siamo del Varese, ci è dovuto”. No… Siccome siamo del Varese, dobbiamo fare in modo che qualcuno venga da noi.

Quando la gente si è innamorata del Varese?
Noi siamo stati un grande Varese finché siamo stati minatori… quando abbiamo messo la testa fuori dalla miniera, non siamo stati più noi. Era lo spirito della provincia, quello che ho sempre cercato di trasmettere ai giocatori e che vorrei portare anche a Luino: un gioco lo possono dare tutti, la mentalità no, quella è difficile da costruire. E ogni posto deve avere la sua: a Varese non puoi pensare come a Milano… Se perché hai vinto un paio di incontri, pensi di poter affrontare uno più forte di te a viso aperto, è chiaro che le prendi. C'è chi andava a San Siro per vedere Ronaldinho perché faceva il numero, ma si alzava in piedi per Gattuso: in provincia, per rinascere, bisognerebbe riportare questo spirito. Sarà difficile: vedo sempre meno gente disposta a soffrire e sempre di più che vuole tutto già pronto. Anche i ragazzi: difficile allenarli, pensano di sapere già tutto, e non c’è niente di più difficile che insegnare a chi pensa di sapere già.

Il vero Varese: cos'è, anzi cos'era?
Non c’era una squadra, una tifoseria, una dirigenza: c’era una cosa sola. Ciò che contano sono le persone, sempre e comunque.
 
Torniamo alla salvezza ai playout con il Novara quando tutti vi davano già per retrocessi: qual è stata la chiave?
Al venerdì un mio giocatore mi disse: “Mister, non guardiamo un filmato del Novara?”. Risposi: “No, noi dobbiamo lavorare su di noi”. “Ah, allora non ci sono più fenomeni...”. Questa frase mi ha illuminato: i giocatori non vogliono capire quanto sono bravi gli altri, ma quanto sono bravi loro. Questa è stata la chiave di svolta per quella squadra, che è stata la più forte che ho mai avuto. L’anno dopo mi sarebbe piaciuto riallenarla, ma me l’hanno smontata pezzo a pezzo: siamo partiti in ritiro in 25 e siamo tornati a casa in 17. Se tornassi indietro, rifarei tutto. Ho dato tutto me stesso. Sono molte di più le partite che ho perso, ma quelle che ho vinto mi hanno dato grande soddisfazione.

Era tutto scritto?
Non avessi avuto Pavoletti e i suoi 5 gol in 4 partite, non credo che ci saremmo salvati. Ma in casa con il Siena, all’ultima di campionato, dopo cinque minuti c’era stato un rigore clamoroso su Neto non assegnato, tutta la panchina si era alzata in piedi e io avevo detto: sedetevi, tanto vinciamo. Era tutto scritto, come diceva quello là. Certe cose le senti solo in quel determinato momento. Non sai perché succede, ma succede.

Contano di più i giocatori o l'allenatore?
La cosa più importante del calcio sono i giocatori, non l’allenatore. Non capisco i colleghi che dicono “ho vinto”: l’allenatore non vince mai. La vittoria è dei giocatori, la sconfitta è dell’allenatore.

Ai ragazzi cosa insegna Bettinelli?
Che lo sport non è contrapposizione: è migliorare sé stessi. Solo migliorandoti arrivi al risultato. Tutti invece giocano in contrapposizione a qualcosa o qualcuno e non migliorano mai. Non è il modo giusto. Non è il mio calcio.

Andrea Confalonieri

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