Era buio a Masnago, sei giorni fa.
Buio dentro, al termine di una via crucis anticipata di due settimane che nell’ordine aveva proposto le seguenti stazioni: beffa, sconfitta, guerra aperta e appendici di rabbia, frustrazione e lacrime negli spogliatoi.
Pesti gli occhi, vuota l’anima, tremante il cuore.
Era buio a Masnago, sei giorni fa.
Buio fuori, quando alcuni reduci della tregenda del Lino Oldrini si erano per caso ritrovati fuori da un palazzetto ormai deserto. I ragazzi degli uffici, abbattuti nell’aver toccato con gli occhi la disperazione del loro capo. I giornalisti, chiusi e inviati i loro pezzi gonfi di disillusione e svanita quell’adrenalina che riempie le righe ma non dà risposte ai perché. E lo staff tecnico, rimasto più di due ore nel ventre dell’arena per fare quello che è chiamato sempre a fare nei giorni in cui splende il sole e in quelli in cui diluvia, nelle vittorie e nelle sconfitte, nella buona e nella cattiva sorte: andare avanti, costruire un domani.
Dalla porta, per ultimo, esce lui.
Lui che si guarda in giro e fa quello che in pochi - al suo posto, nel suo ruolo, dopo una partita in cui la sua squadra si è letteralmente buttata via, certificando il proprio dramma sportivo - farebbero: invece di prendere velocemente e comprensibilmente la via della macchina, cambia strada e ci raggiunge.
«Forza ragazzi» gli esce in un italiano che non ti aspetteresti, mentre ti appoggia una mano sulla spalla. «Io ci credo - continua in inglese - dovete farlo anche voi. Ci sono errori ed errori: quelli di stasera, per quanto ci abbiano fatto perdere, mi hanno fatto capire che la squadra c’è. Ci salveremo, io ci credo».
Ci sorride, gli sorridiamo.
Ma la nostra è cortesia, la sua è convinzione.
È passata una settimana e ora tutto ha un senso: quel sorriso, quelle parole, quella luce nel buio.
Varese vince a Napoli con il kastritismo puro, alchimia di semplicità, regole e soprattutto voglia, ingredienti possibili anche quando ogni ricetta è andata a fallire. Lo scontro sul parquet parrebbe ancora una volta impari: da una parte una squadra che ha speso centinaia di migliaia di euro per rifarsi una verginità con un quintetto da playoff, fatto di chili, centimetri, talento e alternative; dall’altra i reduci di una maionese (costosetta anch’essa, diciamocelo…) che ha iniziato a impazzire a settembre e non si è ancora davvero montata, tra pezze prese tanto per far numero (Anticevich pare l’ultimo della serie), istinti inguaribili e un passato che continua a otturare le vene, a pesare sulle spalle e a stringere lo stomaco.
Ma stasera la prima di cui sopra è scesa in campo per giocare, mentre la seconda lo ha fatto per sopravvivere, facendo diventare la disperazione fiato, corsa, difesa, triple e voglia di non morire, di non darla vinta a chi l’ha sempre vista perdere e quindi se lo aspetta.
Un’altra volta.
E invece no, perché chi si è salvato dagli olocausti nucleari che questa stagione ci ha consegnato è diventato un soldato. Al servizio del generale Ioannis.
Agide II scriveva: gli Spartani non chiedono quanti sono i nemici, chiedono dove sono.
PS: Scafati ha perso.
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