Otto mesi di reclusione, con la sospensione condizionale, e 1.040 euro di multa. Questa la sentenza pronunciata in mattinata in tribunale a Cuneo su una vicenda di pedopornografia minorile. Ad essere accusato, un uomo di origini romene residente in Valle Maira.
Nell’agosto 2021, la Polizia postale di Torino ricevette una segnalazione da un’agenzia statunitense, la Homleand Security Agency, che riguardava un’indagine sotto copertura volta al contrasto alla pedopornografia online. L’attività portò ad un arresto e alle analisi di alcuni dispositivi in uso all’arrestato.
Sulla piattaforma Viber, un’applicazione di messaggistica istantanea i cui canali sono accessibili tramite invito, era stato scoperto un gruppo di 226 partecipanti, chiamato “Canção da Paz” (il canto della pace), amministrato da alcuni soggetti latinoamericani. Tra di loro c’erano anche 12 italiani e tra questi anche l’imputato, finito sotto accusa per detenzione di materiale pedopornografico.
L’ispettore che quell’anno aveva coordinato la squadra della Postale e che effettuò le indagini, aveva spiegato che l’attività si era concentrata sul controllo di tutti i partecipanti del gruppo e su chi avesse precedenti specifici: “C’erano utenti che chiedevano esplicitamente materiale pedopornografico – aveva illustrato- e lo facevano con frasi tipo “hai pedo?” o vari acronimi. Risultava che l’utenza telefonica dell’imputato avesse postato un video pornografico a novembre 2020”. Il contesto del gruppo “Canção fa Paz” sarebbe stato dunque inequivocabile: “Molto spesso – ha proseguito - in questo tipo di canali la cessione di materiale pedopornografico è l’unica moneta di scambio utilizzata per ottenere altri materiali. Il video che l’imputato aveva inviato ritraeva una bambina di circa 6 anni che aveva un rapporto orale con alcuni adulti”.
La Polizia postale, nel corso delle indagini, aveva anche sequestrato e analizzato il cellulare dell’imputato. Il capo coordinatore della postale torinese aveva spiegato di aver visionato il file system che raccoglieva immagini e video pedopornografici. “Abbiamo scaricato le cartelle di archiviazioni, ma non è stato possibile scaricare la chat”.
Potrebbe, dunque, essere un caso che sul cellulare dell’imputato fossero arrivati quei contenuti perché involontariamente arrivati da banner pubblicitari o da link? “Quei contenuti hanno un percorso completamente diverso rispetto ai software di messaggistica - aveva continuato il testimone -. Non riuscendo ad estrarre le chat, non sappiamo i contesti delle conversazioni, quanti fossero i partecipanti e chi scrivesse. Non c’è alcun riferimento visivo. Sappiamo però che quelle immagini sono state visualizzate perché sono state create le miniature”.
Ed è sul mancato raggiungimento della prova che l’avvocato dell’uomo, il legale Alberto Bovetti, ha insistito chiedendo l’assoluzione: “Tutte le chat del mio assistito erano vuote - ha detto nella arringa-. L’ispezione del dispositivo ha dato esisto negativo. La partecipazione in quelle chat richiedono un dolo intenzionale, non basta l’accettazione del rischio. Non è stato trovato alcun materiale”.
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