La fotocopiatrice delle sciagure era già pronta, calda al punto giusto. Il foglio con i commenti del match contro Treviso e di quello contro Brindisi era stato inserito, tronfiamente triste nell’attesa di duplicarsi. A quel punto sarebbe stato necessario cambiare solo le virgole: veloce e indolore.
Invece…
Invece siamo qui a chiederci cosa abbiamo appena visto. Una resurrezione? Un terno al lotto, come tale casuale? Un’errata corrige di tutto ciò che abbiamo scritto e sostenuto finora?
Ordine. Con gioia, ma ordine.
Il merito più grande della Varese che a Trieste ha spezzato l’incantesimo della sconfitta è stata l’anima, quella invocata alla vigilia di fronte alle perduranti assenze e criticità tecniche. La stessa che aveva permesso di combattere contro veneti e pugliesi, oggi ha fatto un passo in più, ha condotto fino in porto, agevolata – bisogna scriverlo – da una Trieste più brutta che vera e irretita fin dal minuto zero dalla zona, alla stregua di una squadra del Csi (e questo è un merito varesino, non certo un colpo di fortuna).
Ferrero e compagni per una volta non hanno subito la partita: l’hanno fatta, ne hanno cambiato il senso appena lo stesso ha provato a girare e poi hanno avuto il sangue freddo di tagliare la giugulare nel momento giusto ai padroni di casa, rimasti asserragliati nel loro nervosismo. Basterebbe questo a esultare: finalmente i biancorossi hanno dimostrato di non piegarsi alla volontà altrui.
Dal punto di vista tecnico il successo è maturato appunto con la difesa (e un bravo va immediatamente a Vertemati che, al di là della necessità derivante dalla costante penuria di pivot, non ha toccato il lavoro impostato da Cavazzana) e con un attacco nel quale le individualità hanno per la prima volta “fatto” un totale degno di alzare le braccia.
No, nemmeno stavolta Varese ha attaccato di squadra: lo dimostra persino il numero degli assist, 10, inferiore anche alla media stagionale. I singoli, però, sono stati galattici: Gentile ha accompagnato la consueta pregevole fattura tecnica del suo basket con una visione da unico costruttore di gioco (e questa unicità continua a essere un problema) e un equilibrio non facile da creare quando ti ergi – volente o nolente – ad accentratore delle responsabilità (oggi, peraltro, bravo a ritrarsi quando vicino a lui ha trovato co-protagonisti validi); Kell, ancora una volta lontanissimo da quel regista che la piazza agogna (e stasera lo dimostrano anche le assistenze a tabellino, ovvero zero), è stato paziente nell’aspettare che la gara lo accarezzasse, poi se ne è impadronito con forza, non sprecando nemmeno un pallone, colpendo da fuori (3/6 da 3) e giganteggiando per il campo (30 di valutazione), difesa a parte: che le voci di mercato lo abbiano svegliato? Beane, infine, impreciso in modo quasi indisponente per 30 minuti, ci ha ricordato che, parafrasando Boskov, “partita finisce quando sirena suona”, e nell’ultimo quarto si è preso il palcoscenico e ha messo i chiodi sulla bara giuliana.
Infine onorata menzione per Sorokas, un De Pol del ventunesimo secolo ancora più sgraziato a volte, ma lottatore tremendamente efficace. E indispensabile per ogni squadra.
Già squadra: per noi il play continua a mancare come l’aria che si respira. Una vittoria non fa primavera, permette solo di ragionare con molta più calma e il successo dell’Allianz Arena vale tanto anche per questo. Al posto di Wilson o di Kell? Beh, se si dovesse agire solo in base a quanto visto stasera non ci sarebbero dubbi, anche perché uno è rimasto a riposo… Si può cambiare davvero senza cambiare, abbiamo chiesto alla vigilia della trasferta? La nostra risposta prediletta rimane no. E di certo le vie per migliorare e diventare più solidi sono infinite, soldi permettendo.
E se invece a mancare fosse la guardia tiratrice? Vabbé, è tardi. Buona notte e buon ritorno alla vittoria.
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