A Masnago tornano gli applausi. Purtroppo sono solo quelli di noi (giornalisti, dirigenti, qualche consorziato, gli addetti del palazzetto) fortunati reduci delle abitudini domenicali stravolte dalla pandemia. Ma sono sinceri. Figli di una passione che sta tornando a scaldare.
Il silenzio che ha ammantato la cattedrale fino a mercoledì scorso non era solo una questione di rapporto tra anime e seggiolini (vuoti): sottolineava l’incedere di una compagine che perdeva e faceva ammattire per la sua povertà di spirito. L’inadeguatezza tecnica è peccato che alla lunga non perdoni ad allenatore e società: l’esclusione dalla lotta e quella non voglia di rimediare con la ferocia alla povertà della propria condizione sono invece macchie di chi va in campo.
Al balletto di Luis Scola che stasera ha fissato il definitivo 110-105, il menomato Lino Oldrini si è incendiato. Nello stesso modo in cui lo avevano acceso prima le bombe di Beane, poi i canestri di una stella argentina finalmente tornata a giocare dentro la squadra, ma soprattutto quegli sprazzi - difensivi e di garra - che hanno permesso di scrivere una storia completamente inedita per la stagione in corso.
Da queste parti sta cambiando tutto nel segno dell’intensità. E si vede. E ciò dimostra che i postumi del Covid - come avevamo già provato a sottolineare nelle ultime settimane - c’entravano davvero poco con le sconfitte di Trieste e soprattutto di Cantù, ascrivibili molto di più ai colpi di coda di una Varese che non vorremmo mai più vedere. Una Varese molle, piagnucolosa dentro e fuori dal campo. Una Varese vittima - oltre che artefice - dei propri errori, dal primo dei dirigenti all’ultimo dei giocatori. Una Varese che sul rettangolo di gioco si è per mesi espressa al minimo delle proprie potenzialità. E allora hai voglia a piangere per il destino cinico e baro dello schifoso virus, brutta realtà che qui ha colpito durissimo - nessuno lo mette in dubbio - ma che non aveva il potere di spiegare certe cose viste e riviste, trite e ritrite.
La prova? Queste due vittorie consecutive, questi due battiti d’ali che permettono di rivedere il cielo dopo aver sentito per mesi l’odore della terra. Il fiato corto e le gambe tremolanti del post malattia non se ne possono essere andate in una sola settimana dalla resa - uguale a tutte le altre rese di quest’anno finora disgraziato - di Cantù: quello che sta andando via è il male cestistico che ha fiaccato tutta la combriccola da ottobre in poi.
Cremona è stata lì a rompere le scatole fino al 50’ (e avrebbe pure vinto se non ci fosse stata la prodezza di Strautins)… Bene così: la conseguente maratona ci ha riconsegnato la nostra squadra, la nostra umile Varese, in una misura ancora più piena e pura. Gli alfieri del Torrazzo avrebbero rubato in chiesa se avessero vinto oggi, attaccati ben più alle prodezze individuali di Hommes e Poeta che a un senso comune. Quello che invece ha avuto la squadra di Bulleri: a volte poco più di un anelito, sicuramente lieve, perfettibile e intermittente. Ma quando torni ad apprezzare il profumo della lotta allora sai perdonare tutto, opzione che personalmente trovavamo impossibile da scegliere nello sfacelo di prima.
Tre i simboli, tutti sotto il cappello della già citata intensità. Il primo: la difesa. Accesa dal primo giro di cambi, ottima nei numeri del terzo quarto (solo 15 punti subiti: ci vuole sempre un quarto così per sperare di vincere), ben riconoscibile sia nei singoli (menzione speciale per Douglas, Jakovics, Ferrero, Strautins) che nella loro somma, efficace al netto di pause, errori e pure qualche orrore. Il secondo: le prove individuali a servizio di un’idea finalmente collettiva. Basta pennellate che non entrano nel quadro: da Scola in poi, dalle folate di Beane in giù, oggi ogni guizzo ha avuto un peso specifico enorme per il risultato finale, permettendo ai padroni di casa di reagire ogni qualvolta la Vanoli abbia provato ad alzare con veemenza la voce.
Il terzo: il coach. A nostro giudizio assai prone alla critica nella sequela di insuccessi interrottasi giovedì quanto da onorare oggi. Attento nel leggere la partita, coraggioso nel proporre un bouquet assai vario di quintetti (i tre piccoli più Morse e Scola il nostro preferito) e bravissimo nel trovare risorse - ruotando 9 uomini - nell’ennesima, difficile e ravvicinata battaglia di una guerra che durerà fino al 14 febbraio.
E poi se questi bravi ragazzi vestiti di biancorosso hanno finalmente deciso di vendere cara la pelle, il merito non può non essere suo.
Abbiamo sempre creduto - e sempre crederemo - nel peso di un allenatore sui risultati. Chi sta in panchina non è un vecchietto che guarda un cantiere: è il generale responsabile dell’esercito. Onori e fango sono e saranno sempre i bivi della vita professionale che si è scelto.
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